Professore ordinario di diritto internazionale nella Regia Università di Torino - Deputato e Ministro del Regno d’Italia
Pasquale Stanislao
Mancini nasce a Castel
Baronia, Avellino, il 17
marzo 1817, figlio
dell’avvocato Francesco
Saverio. Laureatosi in
Giurisprudenza
all’Università di Napoli
nel 1835, inizia la
carriera forense e fonda
una scuola privata di
diritto pubblico e
penale. Nel contempo,
svolge attività
giornalistica e diventa
un protagonista della
vita culturale.
Nel 1848 si mette in
luce con la petizione al
re Ferdinando II per
l’intervento nella prima
guerra di indipendenza e
con la difesa dello
statuto del 12 gennaio
1848. Membro della
commissione per la
riforma dei codici ed
eletto deputato, scrive
il testo della protesta
contro “la violenza
delle armi regie” e
difende alcuni
giornalisti e deputati
(dopo l’abrogazione
della costituzione).
Accusato di ribellione
(e successivamente
condannato a 25 anni di
reclusione), il 27
settembre 1949 fugge a
Torino, in esilio, e
guadagna la stima di
Carlo Ilarione Petitti,
di Federico Sclopis, di
Cesare Balbo e di
Massimo d’Azeglio,
nonché di Lorenzo
Valerio, con i quali
coltiva rapporti di
amicizia. A Torino
esercita la professione
di avvocato, scrive e
pubblica.
Grazie ai buoni uffici
di Cesare Balbo, Mancini
è oggetto di interesse
da parte del presidente
del consiglio Massimo
d’Azeglio. In prima
battuta, si prospetta
l’ipotesi di creare una
scuola per formare i
diplomatici sardi, che
si propone di portare al
ministero degli affari
esteri giovani che non
siano soltanto di
estrazione
aristocratica, ma il
progetto tramonta.
Successivamente, il
ministro della giustizia
Giuseppe Siccardi lo
chiama a far parte della
commissione “per
rivedere le leggi civili
e criminali” (1850), e
di lì a poco d’Azeglio
demanda al ministro
dell’istruzione pubblica
Cristoforo Mameli la
presentazione di un
progetto di legge per
l’istituzione di una
cattedra di Scienza
consolare e diplomatica
presso l’Università di
Torino. Per parte sua,
in questo periodo
Mancini intuisce che il
regno di Sardegna ha
intrapreso un percorso
di riforme che il
vigente statuto
albertino permetterebbe
di realizzare se si
riuscisse a conferire un
solido fondamento
giuridico alle
aspirazioni nazionali e
non solo municipali
dello Stato, che ha subìto
la sconfitta nella prima
guerra d’indipendenza,
nel 1848-49.
L’idea della cattedra di
Scienza consolare e
diplomatica si sviluppa
in maniera differente, e
l’iter parlamentare
della legge è
relativamente breve.
Essa viene promulgata il
14 novembre 1850 e con
decreto del 17 dicembre
1850 l’insegnamento è
assegnato a Pasquale
Stanislao Mancini. Viene
così costituita – nella
Facoltà di
Giurisprudenza della
Regia Università di
Torino - la cattedra di
"Diritto pubblico
esterno ed
internazionale privato"
e l’inizio del corso
viene stabilito per il
gennaio 1851. La legge è
costituita da cinque
soli articoli, al
secondo dei quali si
precisa che il corso
dovrà comprendere il
diritto marittimo e “coordinarsi
con la storia dei
trattati, soprattutto di
quelli riguardanti
l’Italia, e la Monarchia
di Savoia in particolare”.
Si noti che si menziona
l’Italia, come se si
trattasse già di un
soggetto politico e
giuridico. Il corso
(art. 3) è concepito
come biennale, e “farà
parte del corso
completivo”,
cioè di formazione
avanzata.
Mancini comincia il
corso il 22 gennaio 1851
con la famosa prelezione
“Della nazionalità come
fondamento del diritto
delle genti”, un
discorso lungo, enfatico
e venato di passaggi
retorici. Non bisogna
dimenticare che la
“prelezione” era
pronunciata nel corso di
una cerimonia ufficiale,
alla quale assistevano
le autorità e l’intero
corpo accademico, che
così potevano farsi
un’opinione diretta
della qualità del
professore. Si può dire
che parlasse a Torino e
per i torinesi, ma con
l’attenzione a un
pubblico ben più ampio.
Nel suo discorso,
Mancini esprime con
vigore (è un oratore
eccellente) una tesi
chiaramente invisa alle
potenze che raccolgono
sotto il loro dominio
nazionalità diverse.
Infatti l’Austria,
tramite il conte Rudolf
Appony, ministro
plenipotenziario a
Torino, esercita forti
pressioni sul presidente
del consiglio d’Azeglio
affinché questo
riconduca a idee meno
radicali il Mancini o,
meglio, lo sostituisca
con qualcuno meno
liberale. Anche
l’incaricato d’affari
del regno delle Due
Sicilie, il barone
Giuseppe Canofari, fa
successivamente
pervenire forti
rimostranze al governo
piemontese. Tuttavia,
nonostante le pressioni,
Mancini viene protetto e
sostenuto, anche perché
le idee da lui espresse
sono in linea con la
politica della monarchia
sabauda.
La risposta borbonica
non si fa comunque
attendere, anche per le
continue denunce di
Mancini della
repressione politica, di
cui egli stesso era
caduto vittima; questa
reazione si esplica
nella confisca delle
proprietà del giurista
napoletano in
Meridione,
delle quali rientrerà in
possesso solo dopo la
spedizione di Garibaldi.
Nel contempo Mancini si
adopera anche per poter
tornare ad esercitare
l’avvocatura, a Torino.
Nei primi mesi del 1851
chiede la cittadinanza
sarda, che gli viene
concessa con decreto il
2 giugno. Il 5 ottobre
egli giura fedeltà al re
ed allo statuto.
Tuttavia la sua domanda
di iscrizione all’albo
inizialmente viene
respinta dal foro
torinese, nonostante che
Mancini sia già
diventato professore.
Solo dopo forti
pressioni viene ammesso
a difendere in Tribunale
il 25 luglio, e il 25
novembre presso la
Cassazione. Una volta
superate le iniziali
difficoltà nell’accesso
alla professione, il
Mancini colpisce subito
tutti con le sue doti e
la sua sorprendente
eloquenza, dando così
seguito anche a Torino
alla brillante carriera
forense iniziata a
Napoli.
Dedica le lezioni dal
1852 al 1854-55 agli
studi che conduce per
elaborare i criteri per
la soluzione dei
conflitti di legge nello
spazio. I criteri
saranno poi adottati nel
titolo preliminare del
codice civile del 1865,
e diventeranno anche
oggetto del tentativo di
portare alla redazione
di un codice
internazionale di
diritto internazionale
privato. Questo progetto
viene perseguito con
tenacia dal Mancini per
un decennio, fino al
1873 e alla fondazione
dell’Institut de droit international,
e finisce con
l’incontrare
l’insormontabile
opposizione del
cancelliere Bismarck.
Mancini, ormai diventato
un giurista di fama
internazionale, viene
eletto primo presidente
dell’Institut.
Nella successiva
sessione del 1874 a
Ginevra, egli è
nuovamente presidente e
pone in evidenza, nella
sua relazione, la
necessità di addivenire
alla adozione di
convenzioni
internazionali volte a
rendere obbligatorie ed
uniformi alcune regole
del diritto
internazionale privato,
al fine di sottrarre la
disciplina dei rapporti
internazionali privati
ai mutevoli rapporti di
forza tra gli Stati.
Nel 1856-1857 il
regolamento degli studi
legali della Regia
Università di Torino del
9 ottobre 1856 ha
disposto che
l’insegnamento di
Mancini cambi la propria
denominazione in
“Diritto internazionale”
e venga inserito al
quinto anno del corso
ordinario della Facoltà
di Leggi. È chiaramente
un riconoscimento del
valore e dell’importanza
della materia, nonché
delle capacità del suo
docente; tuttavia questa
promozione comporta la
necessità di abbreviare
la durata del corso, che
da biennale diviene
annuale. La riduzione
del tempo a sua
disposizione indurrà il
Mancini a segnalare
l’assoluta insufficienza
delle lezioni a fronte
dell’ampiezza e
dell’importanza degli
argomenti da trattare.
La notevole fama ormai
raggiunta dal giurista
viene suggellata anche
dall’onore conferitogli
di tenere il discorso
inaugurale per l’anno
accademico 1858-1859.
Sempre attivo nella vita
politica, è al fianco
del conte Camillo Cavour
come segretario in
occasione del negoziato
e della firma del
trattato di Zurigo
(1859). Eletto deputato
nel parlamento
subalpino, sostiene poi
la conquista e la
dittatura di Giuseppe
Garibaldi, e dà il suo
autorevole sostegno alle
scelte di Cavour, il 29
giugno 1860. Partecipa
alla redazione della
relazione, presentata
alla Camera il 6 ottobre
1860, che autorizza il
governo “ad accettare e
stabilire con decreto
l’annessione delle
province dell’Italia
centrale e meridionale”
dopo la celebrazione dei
plebisciti, adottando
un’interpretazione
estensiva dell’art. 5
dello statuto del regno
(pur manifestando
perplessità per la
scelta di rinunciare
all’annessione delle
Venezie e alla soluzione
della questione romana).
Inoltre, nel periodo
delle annessioni, il
Mancini è inviato dal
Cavour a Bologna e a
Firenze, per preparare
l’estensione della
legislazione sarda ai
ducati dell’Italia
centrale, alle legazioni
e alla Toscana. Uno dei
problemi di maggior
rilievo era, infatti,
l’unificazione
legislativa, che doveva
seguire quella politica,
in corso di
realizzazione.
Dai banchi
dell’assemblea subalpina
si prodiga con passione;
in particolare va
ricordato il discorso
con cui si oppone alla
cessione di Nizza alla
Francia, che gli vale la
stima e l’amicizia di
Garibaldi. Questa viene
poi consolidata quando
Mancini assiste
Garibaldi nella causa
per l’annullamento del
matrimonio con
Giuseppina dei conti
Raimondi.
Convinto della natura
“cosmopolita” del
commercio e della
necessità di una
coerente disciplina
normativa, nel 1862 è
sostenitore della
necessità di estendere
il codice di commercio
albertino, nel nome
dell’unità economica e
finanziaria italiana.
Il 13 marzo 1862 Mancini
è per la prima volta
ministro, nel governo di
Urbano Rattazzi, con il
portafoglio
dell’istruzione
pubblica; con
l’autorevolezza
derivante dalla sua
posizione decide per
l’inserimento della
filosofia del diritto
tra le materie
obbligatorie della
Facoltà di
Giurisprudenza. Tiene
l’incarico ministeriale
per circa un mese,
rassegnando poi le
dimissioni per
insanabili contrasti con
gli altri esponenti del
governo; da quel momento
passa nelle file della
sinistra parlamentare
(venendo riconfermato ad
ogni elezione dalla
fedele Ariano Irpino,
collegio in cui aveva
deciso di candidarsi dal
1861 in poi), sinistra a
cui apparterrà per tutta
la sua vita parlamentare
seguente, e di cui
diviene col tempo uno
degli esponenti più
significativi.
Nel codice del 1865 il
giurista napoletano
riesce a inserire, in
materia di trattamento
di cittadini e
stranieri, il
superamento del
principio di reciprocità
in favore di quello di
integrale parità. La
disposizione risulta
anche particolarmente
utile a un paese di
emigrazione come
l’Italia di allora.
Nell’anno accademico
1870-71, il professor
Mancini è chiamato alla
cattedra di
Diritto
internazionale
dell’Università di Roma,
lasciando così
l’Università di Torino,
della quale nell’anno
accademico 1875-1876
verrà nominato
professore emerito.
Presidente del consiglio
dell’ordine degli
avvocati di Roma, nel
gennaio 1876 Mancini
diviene ministro della
giustizia nel governo di
Agostino Depretis. Si
adopera molto nel campo
della riforma dei
codici, proponendo un
progetto di codice
penale, che prevede
l’abolizione della pena
di morte, e uno di
codice del commercio,
che prevede l’abolizione
della carcerazione per
debiti; si prodiga anche
per l’abbattimento dei
numerosi privilegi
ecclesiali. Il nuovo
codice di commercio
(promulgato nel 1882) è
stato ricordato come
“codice Mancini”, per il
ruolo rilevante che il
grande giurista ha avuto
nella sua elaborazione e
adozione. Si preoccupa
di assicurare
l’indipendenza della
magistratura dal potere
politico e per la
normalizzazione della
situazione del Sud. Il
Mancini è contrario
all’adozione di misure
eccezionali che a suo
avviso non fanno che
ampliare la voragine che
si sta aprendo tra le
diverse realtà italiane.
Caduto il governo nel
1877, egli viene
riconfermato nello
stesso ruolo e ha una
parte fondamentale
nell’escludere ogni
ingerenza estera
nell’elezione del nuovo
Papa, dopo la morte di
Pio IX.
Intanto nel 1878 cade il
governo, e con l’avvento
del Cairoli il Mancini
torna all’attività
forense ed universitaria
(tra le cause di
rilievo, si può
menzionare la difesa
dell’ammiraglio Carlo
Pellion di Persano,
processato per le
conseguenze della
sconfitta di Lipsia);
nello stesso anno viene
rieletto nel collegio di
Ariano, e si trova
costretto a lasciare
l’insegnamento a causa
della legge sulle
incompatibilità con
l’ufficio di
parlamentare.
Nel 1881 Mancini assume
la direzione dell’Enciclopedia
giuridica italiana (1884-92).
Un altro grande impegno
del Mancini, attuato
anche attraverso l’Institut
de droit international,
ma soprattutto
attraverso l’attività
parlamentare, è quello
per l’introduzione
dell’arbitrato come
mezzo per scongiurare il
flagello della guerra;
argomento che il Mancini
sostiene con forza e di
cui si fa carico anche
da ministro degli esteri
con molte iniziative e
pressioni, che però non
ottengono i risultati
sperati. Egli vede
nell’arbitrato
obbligatorio la forma
migliore per contenere
nel diritto i rapporti
di forza tra gli Stati,
obiettivo che il sistema
del “concerto europeo”
non è in grado di
garantire.
Dal maggio 1881 al
luglio 1885, Mancini è
ministro degli affari
esteri. È uno degli
artefici della Triplice
Alleanza, trattato
firmato il 20 maggio
1882, in cui a lungo
spera di coinvolgere
anche l’Inghilterra,
senza risultato però, a
causa della contrarietà
tedesca; opta così per
l’allegazione al
trattato di una
dichiarazione
unilaterale del governo
italiano volta a fugare
ogni dubbio sulla
presenza di uno spirito
antibritannico nel patto
e a sottolineare come
l’accordo con Germania e
Austria sia, per
l’Italia, subordinato al
mantenimento dei buoni
rapporti con
l’Inghilterra.
Nel 1882 intanto si
tiene a Torino l’annuale
sessione dell’Institut
de droit international sotto
la presidenza del genero
di Mancini, Augusto
Pierantoni. L’Institut ha fin dai primi passi una forte impronta manciniana.
Mancini è fortemente
criticato in Parlamento
per la sua politica
coloniale, tanto che,
dopo il balzo in Sudan
respinto
dall’Inghilterra e il no
all’occupazione abbinata
italo-inglese
dell’Egitto, sarà
costretto alle
dimissioni, che causano
in sostanza la fine
della sua attività
politica. Riguardo
all’offerta inglese di
intervento in Egitto, il
Mancini non sa sfruttare
la situazione, non
accorgendosi della crisi
nella collaborazione
franco-inglese e della
ritrosia francese ad
agire apertamente con le
armi; egli d’altra parte
vagheggia, sull’onda del
principio di
nazionalità, un
intervento congiunto
delle grandi potenze, le
quali però non danno
nessun riscontro a
questa idea.
Alle aspre critiche
causate dall’inattività
manciniana si assomma la
perdita di Tunisi e la
magra consolazione di
un’espansione nel Mar
Rosso, invece che verso
l’Africa, e di Massaua,
la quale si sperava
fosse il preludio a
Tripoli; ma la Libia
viene raggiunta solo
alcuni anni dopo. Il
Mancini sostiene
strenuamente la bontà
della sua politica, che
però è stata sicuramente
viziata da alcuni errori
di valutazione, causati
forse soprattutto
dall’imbarazzo in cui il
giurista si è trovato
nel conciliare una linea
più aggressiva con le
sue idee sulla
nazionalità. Proprio a
seguito di un dibattito
sulla politica coloniale
in cui la linea da lui
sostenuta viene
sconfitta dal voto
parlamentare, egli si
dimette segnando la fine
della sua vita di uomo
politico di primo piano.
In definitiva, la sua
attività agli esteri è
percorsa dalle feroci
critiche che i
detrattori gli muovono
ravvisando sia nella
stipulazione di accordi
con uno stato composito
come l’Austria, sia nel
perseguire una, benché
timida, politica
coloniale un
travisamento del
principio di
nazionalità, che con
tanta passione aveva
teorizzato dalla
cattedra torinese nel
1851.
Mancini muore a Napoli
il 26 dicembre 1888, a
71 anni, nella villa
reale di Capodimonte che
il re Umberto gli aveva
messo a disposizione.
Per quanto riguarda
opere scientifiche di
diritto internazionale,
grandissimo oratore,
Mancini non ha
pubblicato molto. La sua
opera si ritrova
essenzialmente nelle
trascrizioni di lezioni,
e nell’attività forense.
Inoltre, l’intensa
attività politica è
ricostruibile attraverso
le raccolte dei suoi
discorsi parlamentari.
Il segno più profondo che Mancini ha lasciato nella storia del diritto è indubbiamente legato alla teoria della nazionalità, esposta nella celebre e celebrata “prelezione” torinese del 22 gennaio 1851. Essa gli garantisce fama e riconoscimenti a livello internazionale. Gioele Solari, maestro della filosofia del diritto nell’ateneo torinese dal 1917 al 1948 (quando fu sostituito dall’allievo Norberto Bobbio) osserva: “La prolusione del Mancini si poneva non solo come un nuovo metodo, ma come un nuovo programma di studi, e fu per l’influenza esercitata in Italia e per i risultati raggiunti quello che fu in Germania la Vocazione del Savigny, con questo in più e in meglio che al concetto vago e indeterminato dell’anima popolare si sostituiva nella prolusione del Mancini la realtà concreta della nazione in via di costituirsi una realtà politica e giuridica” (G. SOLARI, La vita e il pensiero civile di Giuseppe Carle, Torino, Bocca, 1928, p. 12).
La costruzione del
giurista napoletano si
compone di una serie di
elementi, che potremmo
definire materiali, che
egli ci dice essere:
“alcune proprietà e
fatti costanti, che
superando i limiti delle
zone e de’ secoli,
ebbero a riscontrarsi
ognora presso ciascuna
delle tante Nazioni che
fin qui vissero”. Essi
sono: il territorio, la
razza, il linguaggio, la
storia, i costumi, le
leggi, la religione.
Tuttavia la presenza di
questi caratteri non è
affatto sufficiente a
dar vita alla nazione.
Essi sono come “inerte
materia capace di
vivere, ma in cui non fu
spirato ancora il soffio
della vita”. Sono,
quindi, la base su cui
la nazionalità affonda
le proprie radici, ma
non valgono da soli a
sancirne l’esistenza.
Serve un ulteriore e più
importante elemento, che
potremmo dire
spirituale, la coscienza
della nazionalità:
“Moltiplicate quanto
volete i punti di
contatto materiale ed
esteriore in mezzo ad
un’aggregazione di
uomini; questi non
formeranno mai una
Nazione senza la unità
morale di un pensiero
comune, di una idea
predominante che fa una
società quel ch’essa è,
perché in essa vien
realizzata. L’invisibile
possanza di siffatto
principio di azione è
come la face di Prometeo
che sveglia a vita
propria ed indipendente
l’argilla, onde crearsi
un popolo: essa è il
Penso, dunque esisto de’
filosofi, applicato alle
Nazionalità. Finché
questa sorgente di vita
e di forze non inonda e
compenetra della sua
prodigiosa virtù tutta
la massa informe degli
altri elementi, la loro
multipla varietà manca
di unità, le attive
potenze non hanno un
centro di moto e si
consumano in disordinati
e sterili sforzi; esiste
bensì un corpo
inanimato, ma incapace
di funzionare ancora
come una Personalità
Nazionale, e di
sottostare a’ rapporti
morali e psicologici di
ogni distinta
organizzazione sociale”.
La coscienza della
nazionalità è, quindi,
il nucleo fondamentale
della teoria, il
“principio organizzatore
dello stato moderno”.
Senza questo elemento
soggettivo della
“coscienza” non si ha
una nazione. Razza,
territorio, lingua
promuovono, facilitano
l’affermazione di un
sentimento nazionale, il
quale però non è un
prodotto necessario di
questi elementi, che ne
sono solo validi
sostegni, nonché
evidenti indizi.
L’idea di nazione,
dunque, poggia su basi
decisamente
volontaristiche.
L’efficace formula di
Ernest Renan – la
nazione come “plebiscito
di tutti i giorni” –
nella sostanza è già in
Giuseppe Mazzini e – in
una costruzione
giuridica – in Pasquale
Stanislao Mancini.
Mancini identifica la
nazione in “una società
naturale di uomini da
unità di territorio, di
origine, di costumi e di
lingua conformati a
comunanza di vita e di
coscienza sociale”. Essa
si forma al termine di
un processo storico,
diverso di caso in caso
e sicuramente di non
facile lettura: “Essa è
un fatto sociale, non
individuale; essa non
vive in tutti gli
individui di uno stesso
aggregato umano, né con la stessa
intensità ed energia, né
con lo stesso contenuto
ideologico e
sentimentale”.
Questo sentimento non è
però un fattore privo di
veste giuridica. Il
Mancini si preoccupa di
affrontare la questione,
ed è proprio ciò che più
vale a differenziare e a
rendere innovativo il
suo approccio rispetto
ai precedenti. Egli ci
dice come la sola
esistenza di una
nazionalità generi,
senza la necessità di
pattuizioni di alcun
tipo, rapporti giuridici
che si manifestano nella
libera costituzione
interna della nazione e
nella sua indipendenza e
autonomia nei confronti
delle altre.
Quando un insieme di
uomini, conformati da
unità di territorio,
lingua, costumi e
quant’altro, acquisisce
la coscienza di formare
nella propria totalità
una nazione, allora ha
il diritto di elevarsi a
Stato indipendente. Il
Mancini ritiene che si
tratti di una
generazione spontanea e
necessaria, non legata a
un patto o trattato, ma
dipendente solo dal
sorgere di tale
coscienza: si afferma
così la libera
costituzione interna e
la autonomia dalle altre
nazioni.
La costituzione interna
è poi duplice: da una
parte vi è quella
fisica, che concerne il
possesso di tutto il
territorio nazionale,
dall’altra quella
morale, che si risolve
nell’esistenza di un
governo che regga la
nazione. In definitiva,
l’approdo del
ragionamento manciniano
si condensa in una
frase: “coesistenza ed
accordo delle
Nazionalità libere di
tutt’i popoli”, è la
sintesi del fondamento
del diritto.
Il giurista di Castel
Baronia non si ferma
però alla sola fase
descrittiva. Egli
ritiene che debba essere
la nazione e non lo
Stato il soggetto
proprio del diritto
delle genti; in questa
prima prelezione egli
porta già alle
conseguenze ultime la
sua teoria: lo Stato è
un soggetto artificiale
e arbitrario, mentre la
nazione è naturale e
necessaria; quindi è
questa a dover avere
soggettività
internazionale e non lo
Stato, che tale ruolo
non può rivestire,
essendo manchevole di
ogni legittimazione a
ricoprirlo.
Questo rapporto tra
nazione e Stato è il
punto più
controvertibile della
dottrina. Non si può
negare, comunque, il
valore storico e ideale
della costruzione
manciniana, la quale
riveste un ruolo
importante di stimolo
sul piano etico, nel
processo di formazione
dell’unità d’Italia; né
si può disconoscere la
paternità della teoria
al giurista partenopeo,
cui spetta con certezza
il merito di averla
sistematizzata e
trattata compiutamente,
indipendentemente dalle
precedenti esposizioni.
Questo principio ha poi
il non secondario merito
di aver dato un forte
impulso allo sviluppo
del diritto
internazionale, sia
pubblico sia privato,
dando origine a una vera
e propria ‘Scuola
italiana’, della quale
egli è stato
innegabilmente il padre
e il maestro.
Nel diritto
internazionale, non è
solo il pubblico ad
essere interessato dal
principio di
nazionalità, ma ne è
pienamente coinvolto
anche il privato.
Mancini ritiene,
infatti, che la
nazionalità comporti
anche la necessità di
applicare ad ogni
persona il diritto
proprio della nazione a
cui questa appartiene:
“poiché il diritto
di nazionalità che
appartiene ad un intero
popolo, sostanzialmente
non è diverso
dal diritto di libertà,
che appartiene
agl’individui, ne segue
che di quel patrimonio
stesso di privati
diritti e facoltà, di
cui l’uomo reclama la
garentia ed il rispetto
da parte del proprio
Stato e de’ suoi
concittadini in nome del
principio di libertà,
egli può medesimamente
reclamare la garentia ed
il rispetto da parte di
Stati e genti stranieri
in nome del principio di
nazionalità”.
La regolazione dei
rapporti giuridici dello
straniero in base alla
normativa del Paese di
provenienza non si fonda
più sulla comitas,
ma su un preciso dovere
giuridico discendente
dal principio di
nazionalità e necessario
al suo rispetto.
Il pensiero del giurista
napoletano va oltre:
egli propone un sistema
basato sulla sola
nazionalità, in cui i
rapporti risultino
regolati in base alla
legge del paese di
origine di ogni persona.
In verità il sistema
elaborato da Mancini
prevede dei
temperamenti: ove
l’applicazione di questo
principio vada a ledere
la sfera dei poteri
dello Stato ospitante,
allora si giustificano
deroghe basate sulla
necessità del
mantenimento dell’ordine
pubblico; il sistema può
essere derogato
dall’autonomia delle
parti; i beni immobili
sono sottoposti alla
legge del luogo in cui
si trovano.
Il forte impegno profuso
e la tenacia del Mancini
fanno sì che nelle
preleggi al codice
civile italiano del 1865
venga inserito il
principio di nazionalità
quale criterio per
definire le legge
applicabile allo
straniero. L’articolo 3
delle disposizioni
preliminari ai codici
del Regno d’Italia
recita: “Lo
stato e la capacità
delle persone sono
regolati dalla legge
della nazione a cui esse
appartengono”. È
un’integrale
applicazione della
teoria manciniana al
diritto internazionale
privato, senza alcuna
subordinazione alla
reciprocità di
trattamento. Sarà il
legislatore italiano del
1942, in un clima
politico profondamente
mutato, a fare un passo
indietro e a porre la
reciprocità come
condizione per
l’applicazione della
legge straniera.
L’opera del giurista
napoletano non si limita
però solo al diritto
italiano. Fin dal 1861
gli viene conferito
l’incarico di formulare
un progetto di trattato,
e nel 1867 il governo
gli affida un sondaggio
ufficioso in diversi
Stati europei. Insomma,
il Mancini si prodiga
attivamente in veste di
politico e di
intellettuale affinché
il governo italiano si
faccia promotore di una
codificazione del
diritto internazionale
privato: “mediante la
negoziazione e
stipulazione tra i vari
Stati di una o più
convenzioni o trattati
internazionali, intesi
propriamente a regolare
questa speciale materia
ed a determinare con
uniformi accordi poche
ma precise norme
convenzionali per
rendere obbligatoria
l’applicazione di una o
di un’altra tra le
legislazioni in
conflitto alle persone,
alle cose e agli atti
stranieri”.
Le sue attività
proseguono nel tempo
fino ad arrivare alla
ricordata riunione
dell’Institut de droit
international (1873, a
Gand), in seno al quale
il giurista italiano
sostiene il progetto:
“non è una utopia, ma
potrebbe divenire col
tempo e con gli sforzi
comuni una benefica
realtà, l’accordo di
tutti i popoli in un
diritto civile unico ed
universale della
umanità, quando il suo
contenuto si
restringesse alla
codificazione de’ soli
principi e precetti di
giustizia universale, i
quali scaturiscono dalla
natura dell’uomo e sono
indipendenti dalle
convinzioni della vita
nazionale di ciascun
popolo”.
La codificazione offre
al Mancini un importante
campo di applicazione
del principio di
nazionalità, che egli
voleva costituisse il
cardine del diritto
internazionale privato,
attraverso un trattato
che fissasse i principi
della materia,
permettendo così di
superare i conflitti e
le contraddizioni che le
diverse discipline
codicistiche causano. Il
desiderio del Mancini
rimarrà tale, ma risulta
evidente come egli non
faccia altro che
anticipare i tempi,
poiché il governo
olandese raccoglierà il
suo testimone, e alcuni
anni dopo si terranno le
Conferenze dell’Aja.
In linea generale, quanto alle fonti del suo pensiero, è lo stesso Mancini a riconoscere di aver preso le mosse dal pensiero di Giambattista Vico, quando scrive: “il Vico non aveva velato il suo proposito; lo aveva anzi a chiare note espresso in questo titolo da lui imposto alla prima edizione della grande opera: ‘Principii d’una Scienza Nuova intorno alla natura delle Nazioni, per li quali si ritrovano altri principi del diritto naturale delle genti’”. Il giurista napoletano ritrova in Vico il presupposto filosofico della nazionalità; attraverso lo storicismo vichiano, ossia la realizzazione operosa che l’uomo attua della storia e che quindi porta all’affermazione dei popoli come individua
lità storiche che nel corso del tempo si determinano, il Mancini trae quindi ispirazione per la sua teoria della nazionalità. Il giudizio di Gioele Solari sulla originalità del principio di nazionalità manciniano è corretto: “Molti prima e dopo il Mancini accolsero, svilupparono, definirono il concetto di nazionalità. Il merito tutto proprio del Mancini fu di averlo introdotto nelle scienze giuridiche, di aver dato ad esso forma e significato giuridico. Per opera sua il concetto di nazione cessa di essere monopolio di letterati, di storici, di filosofi, e diventa oggetto di elaborazione giuridica. E ciò significava dar vita e contenuto nuovo ai vecchi astratti schemi del diritto pubblico e privato, ravvivandoli alla luce e al calore di una vibrante realtà storica: significava aprire nuove possibilità all’attività dei giuristi, vivificare quell’indirizzo storico che per opera del Savigny era penetrato negli studi giuridici”.
Non si può analizzare la
teoria della nazionalità
al di fuori
dell’ambiente
risorgimentale, perché
esso la caratterizza e
la ispira. Tutti i
pensatori italiani che
si sono cimentati con
questo tema hanno sempre
avuto in mente l’esempio
italiano, la ricerca
dell’unità nazionale e
di una giustificazione
teorica nel diritto di
tale volontà e
possibilmente di un
fondamento di diritto
naturale, che affondasse
così le proprie radici
in qualcosa di superiore
allo Stato e agli Stati
oppressori.
Così avviene anche per
il Mancini, che esprime
con la sua teoria anche
una esigenza di libertà,
di liberazione
dall’oppressione
dell’Italia; questa
dottrina è perciò
espressione del
Risorgimento, dal quale
trae ispirazione e si
alimenta, senza però che
si arrivi all’eccesso di
ridurre questa parte
della nostra storia alla
sola volontà di
affermazione delle
identità nazionali. Una
tesi di questo genere
sarebbe impropria e
riduttiva della
complessità e della
ricchezza del periodo,
il quale va oltre, verso
una ricerca della
libertà quale ideale a
sé, antiassolutista: non
si voleva solo fare
l’Italia, ma anche
instaurare un regime
nuovo, di segno
liberale. Torino era
l’unica capitale della
penisola a rappresentare
un faro di libertà,
patria di elezione per
gli esuli. La città
subalpina stava alla
penisola italiana come
Londra stava al resto
d’Europa, ed era
l’approdo naturale per i
patrioti che fuggivano
alla persecuzione dei
regimi illiberali.
In una prospettiva più
ampia, l’attività
politica di Mancini,
poi, è segnata dal
tentativo di applicare
nella sfera dell’impegno
politico il principio di
nazionalità e dalla
difficoltà che spesso
egli incontra nel
contemperare la dottrina
con le esigenze
politiche contingenti in
conflitto con essa.
Basti pensare alla
Triplice Alleanza e alla
politica coloniale.
Quanto al Risorgimento,
esso ebbe i ben noti
grandi padri politici e
militari – Cavour,
Vittorio Emanuele II,
Garibaldi, Mazzini – ma
ebbe in Pasquale
Stanislao Mancini il suo
padre giuridico.
Francesco Ruffini, che
dell’Ateneo torinese è
stato una delle glorie
maggiori, commentando le
vicende del 1882, ha
affermato che il Mancini
“è degno di passare ai
posteri non solamente
più con la fama di
oratore principe, che
seppe con la parola
parlata trascinare le
folle, ma con l’aureola
di pensatore penetrante
e lungimirante, che
seppe scrivere, per la
storia futura di questa
nostra epoca grande e
tremenda e per la
giustificazione piena
della nostra politica,
una delle pagine più
decisive”.
A cura del professore Edoardo Greppi